Antonio Canova
ANTONIO CANOVA
(Cavaso di Possagno, Treviso, 1757 – Venezia, 1822)
Alvise Valaresso in veste di Esculapio Inv. 2
Marmo, 232
Inv. 2: Antonio Canova
Prov. Monselice, villa di Giambattista Cromer, 1794; Padova, Museo Civico, dono di Angelo Saggini, 1887
Ref Fot 12771, F
da Dal Medioevo a Canova Sculture dei Musei Civici di Padova dal Trecento all’Ottocento – MARSILIO
Il legame di Antonio Canova con la città di Padova risale agli anni giovanili. Egli stesso, come vedremo a proposito della Stele Giustiniani, scrivendo il 6 febbraio 1802 all’amico Giannantonio Selva a Venezia, cui Vesto affettivamente legato per tutta la vita, dichiarava il suo sincero amore per Padova ( PEROCCO 1998, p. 131).
E la stagione canoviana è ben rappresentata nel Civico Museo: oltre alla statua di Alvise Valaresso in veste di Esculapio, si conservano il Ritratto di Paolo Renier (Museo Bottacin), in terracotta, commissionato a Canova dal senatore Angelo Querini per la sua villa di Altichiero presso Padova nel 1776, e acquistato da Nicolò Bottacin sul mercato antiquariale nel 1864, la statua dedicata al marchese Giovanni Poleni e la cosiddetta Stele Giustiniani che esamineremo di qui a breve.
Appartiene alle civiche raccolte anche il gesso della Maddalena penitente (proveniente dalla Collezione Piazza), modello molto restaurato della statua in marmo conservata a Palazzo Bianco a Genova. Senza voler dire di altre presenze canoviane in città come i bassorilievi “Rezzonico” acquistati dal notaio Antonio Piazza, le cui collezioni sono entrate com’è noto a far parte del patrimonio museale nel 1856, già collocati in un’apposita sala decorata con motivi di gusto neoclassico nel palazzo di via del Santo — successivamente passato ai San Bonifacio -, e nel 1991 venduti dagli eredi alla Fondazione Cariplo di Milano (PAVANELLO 1984 [ma 1985], pp. 145- 162; Canova e Appiani… 1999, pp. 111-113).
Così come dei legami di intensa amicizia – paragonabile soltanto a quella stabilita in seguito con Leopoldo Cicognara – che lo scultore strinse con il “divino” Cesarotti e del suo entusiasmo per la traduzione dell’ Iliade Ad letterato padovano (PAVANELLO 1992, p. 48; MARIUZ , PAVANELLO 1999, p. 6).
Sono questi gli anni della formazione di Canova, trasferitosi da Possagno a Venezia al seguito del suo primo maestro, lo scultore Giuseppe Bernardi, dal quale si affranca appena può riuscendo ad aprire in proprio laboratorio a San Maurizio.
Anni in cui il giovane artista indaga a lungo i calchi dall’antico esposti nella Galleria Farsetti, ma anche i modelletti in terracotta o le piccole riproduzioni in gesso dei capolavori dei maestri del barocco romano, facendo proprie “con prensile intelligenza una molteplicità di suggestioni” (PAVANELLO 1992, p. 45).
A seguito del successo ottenuto dall’Orfeo, esposto alla fiera della Sensa nel 1777, “si moltiplicano gli incarichi da parte di nobili veneziani e “foresti” {Ibidem p. 46) che culmineranno nella commissione del Dedalo e Icaro, ottenuta dal procuratore Pietro Vettor Pisani (1777-1779), grazie alla quale Canova potè realizzare il “sogno romano” di ogni artista “che volesse aggiornarsi e partecipare al dibattito sull’arte d’avanguardia” e studiare l’antico sugli originali {Ibidem p. 47).
Ernestina Stharenberg, moglie del marchese Carlo Spinola di Genova, residente a Venezia, e. Leonardo Venier gli affidano l’esecuzione delle statue di Alvise Valaresso e Giovanni Poleni (cat. 193) da destinarsi all”‘isola memmia” in Padova.
Nel realizzarle Canova abbandona la prassi iconografica, in uso presso gli scultori coinvolti nell’impresa del Prato, di raffigurare i personaggi in costume moderno, mirando non tanto a restituire le fattezze o a evidenziarne il ruolo sociale, quanto piuttosto “a mettere in luce le qualità intellettuali” {Ibidem p. 46).
Il Canova scolpisce dunque Alvise Valaresso, ignudo, nei panni del dio della medicina, mentre il matematico Poleni, anch’egli a busto scoperto, è interpretato come uomo di scienza dell’antichità.
La commissione a Canova sarebbe stata suggerita alla marchesa dallo stesso Andrea Memmo (PAVANELLO 1976, p. 90, n. 13) e il nome del Memmo, come sottolinea Giandomenico Romanelli (1992, p. 53) “evoca una cultura e un ambiente che erano sicuramente i più aggiornati e i più aperti di tutta la realtà veneziana; non solo: certo i più disponibili alla sperimentazione dei linguaggi, i più internazionali, quelli dotati di maggior dimestichezza con la diffusione delle molteplici correnti dell’illuminismo francese non meno che dell’estetica, del gusto e delle inclinazioni del mercato artistico inglesi”.
La geniale idea della nuova definizione dello spazio del Prato della Valle a Padova, nasceva all’epoca del provveditorato straordinario del patrizio veneziano, allora quarantaseienne, vale a dire nel biennio 1775- 1776.
Quanto alle statue dei personaggi che partecipano a questa straordinaria recita in un teatro all’aperto che così grande non s’è mai visto, il magistrato diede per primo il “buon esempio, senza frapporre indugi”. Incaricando 10 scultore Francesco Androsi dell’esecuzione della statua di Antenore, mitico fondatore di Padova, inaugurata il 4 marzo 1776, il Memmo compì un atto che simbolicamente riassume il significato dell’impresa del suo provveditorato, vale a dire la “riproposizione e il rilancio dell’immagine della città, nuova Atene, nuova Roma” ( PUPPI 1986, p. 128).
La statua del Valaresso si trova “da sempre” collocata nell’atrio d’ingresso del Museo al Santo (le sta accanto una Madonna con il Bambino in gesso del padovano Rinaldo Rinaldi, a Roma dal 1812, che fu sempre devotissimo a Canova e che anzi considerò l’artista il suo “secondo padre”).
Come già si diceva, nelle intenzioni della committente, Alvise Valaresso, provveditore di sanità durante la peste del 1631, avrebbe dovuto figurare tra gli uomini illustri e benemeriti del Prato. Viceversa la statua, scolpita nel 1778 nello studio veneziano a San Maurizio e colà rimasta, causa il mancato pagamento, fu acquistata, tramite l’architetto Selva, dall’avvocato veneziano Giambattista Cromer nel 1794 che la collocò nella propria residenza di Monselice.
Vi rimase sino al 1887, anno in cui il nobiluomo Angelo Saggini, pronipote del Cromer, ne fece generoso dono al Museo restituendole in un certo qual modo la funzione pubblica originaria.
È certo che il Canova non andava fiero di questo lavoro giovanile, vale a dire eseguito prima della partenza per l’agognata Roma, se il 27 settembre 1783, scrivendo a Bernardino Renier, affermava: “la statua dell’Esculapio è una delle cose che ho creduto bene ch’ella sia veduta da meno che fosse possibile, non potendo quella farmi alcun onore” (PAVANELLO 1976, p. 90).
Fra l’altro Canova non perderà occasione di “manifestare la propria ripugnanza a eseguire ritratti, non perché egli non avesse il dono di catturare la fisionomia degli individui, ma perché non voleva legare il suo nome a quello d’altri se non quando avvertì di trovarsi di fronte ad un mito”, quello napoleonico, “destinato all’immortalità” ( APOLLONI 1992, p. IO ).
Lo stesso Quatremère de Quincy, storico e critico d’arte intimo amico dello scultore, osservava nel 1834 “difetti specie nel panneggio” (PAVANELLO 1976, p. 90). È pur vero, come evidenzia Pavanello, che l’intonazione idealizzante dell’opera può in parte trovare ragione nella destinazione tutta particolare che l’areopago del Memmo rappresentava.
D’altro canto, sottolinea Crossato, questo saggio giovanile precede la maturazione di un linguaggio pienamente neoclassico da parte di Canova, cresciuto fino ad allora nell’ambito della cultura tardobarocca veneta.
Nella città papale lo scultore sarà ospite tra il 1779 e il 1780 dell’ambasciatore veneto Girolamo Zulian a Palazzo Venezia (cui succederà nel 1783 Andrea Memmo), uno tra i primi committenti ed estimatori lagunari dell’artista.
Come si ricorderà l’illustre patrizio veneziano, in seguito, farà dono alla Repubblica della propria collezione di antichità, “raccolta che lo scultore stesso aveva contribuito a formare”, e che nel 1795 verrà chiamato a sistemare dal bibliotecario della Marciana Jacopo Morelli (FAVARETTO 1992, p. 64).
Osserva acutamente Giulio Carlo Argan (1992, p. 4) che “il passare da Venezia a Roma fu per il giovanissimo Canova un passare dall’empirismo illuministico all’arte-fìlosofia del nascente idealismo.
Ultima opera veneziana fu il gruppo di Dedalo e Icaro’, già menzionato, “un’esplicita dichiarazione di poetica in vista dell’andata a Roma”. In essa si celebra il “mito dell’arte liberatoria” che Canova “ribadì nella prima opera romana,
Teseo trionfante, manifestamente connessa col tema cretese della prima” (ARGAN 1992, p. 4). L’opera è stata oggetto di restauro tra il 1998 e il 1999 a cura dell’Istituto Veneto per i Beni Cul turali in vista della presente esposizione.
Bibliografia: MALAMANI 1911, pp. 14-15; MOSCHETTI I918, p. 143; RONCHI 1922, p. 133; POZZI
1923, p. 24; MOSCHETTI 1938, p. 289; BASSI 1943, p. 12; CROSSATO 1957, pp. 43-44; CHECCHI , GAUDENZIO , CROSSATO I961, p. 365; SEMENZATO 1966, p. 70; PAVANELLO I976, p. 90, n. I3; VICARIO 1990, p. 169, 171, 173, 175; APOLLONI 1992, p. IO ; PAVANELLO I992, p. 46; PELLEGRINI I992, p. 60; ROMANELLI I992, p. 53; VICARIO I994, p. 249.
Franca Pellegrini